Non c’è pace per l’Invalsi: intervistata da Paolo Ferrario su
Avvenire di domenica 10 luglio, la sua presidente, Anna Maria Ajello, lamenta un fatto grave: l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (questo il significato dell’acronimo per i non addetti ai lavori) ha rilevato, nelle prove somministrate quest’anno, un incremento del
cheating (soprattutto nelle regioni in cui il fenomeno era già diffuso in precedenza, e cioè in Calabria, Campania e Sicilia). L’anglismo indica – banalmente – il fatto di copiare. Alcuni insegnanti, insomma, forse preoccupati dall’obbligatorietà, da quest’anno, della pubblicazione dei dati Invalsi nel Rav (il rapporto di autovalutazione approntato dai singoli istituti), hanno pensato bene di consentire ai propri alunni di copiare tra di loro, in modo che i più bravi potessero aiutare quelli meno bravi, o addirittura di suggerire in prima persona agli alunni le risposte esatte ai quesiti (le due materie testate – ricordiamolo – sono Italiano e Matematica). Si tratta chiaramente di un comportamento scorretto dal punto di vista della deontologia professionale: l’insegnante che si comporta in questo modo offre un pessimo esempio e non comunica certo ai ragazzi quell’educazione alla legalità che è parte delle competenze di cittadinanza che la scuola è chiamata a trasmettere. Va detto però che tali condotte non riguardano solo le prove Invalsi. Si presentano spesso anche agli esami di maturità (che si stanno concludendo in questi giorni), laddove i membri interni delle commissioni tendono troppo spesso a 'fiancheggiare' atteggiamenti scorretti, quando non ad esserne essi stessi promotori. Parlo di quei docenti che assurgono ad avvocati difensori degli studenti, difensori 'a prescindere' (come avrebbe detto Totò), in quanto i 'loro' ragazzi vanno a tutti i costi protetti da una commissione d’esame brutta e cattiva nella sua componente esterna. Eccoli allora aggirarsi tra i banchi generosi di consigli durante le prove scritte, suggerire agli alunni in anticipo i quesiti della terza prova (quella preparata dalle singole commissioni) o le domande che verranno poste all’orale. E spesso si trovano a difendere l’indifendibile, quando si tratta, alla fine, di stabilire se promuovere o bocciare. Se il presidente di commissione non è accorto, abitudini di questo tipo rischiano di compromettere irrimediabilmente la serietà dell’esame. E guai a chi si sottrae a tale andazzo! Da presidente di commissione, mi è capitato qualche anno fa di dover difendere un membro interno da attacchi molto duri da parte degli altri suoi colleghi, soltanto perché aveva osato votare per la bocciatura di un alunno, rispondendo – come dovrebbe essere sempre, ma quasi mai è... – non a una logica 'di squadra', bensì alla propria coscienza professionale. Spesso l’irresponsabilità di tali condotte non è determinata tanto da malafede quanto dall’umana e comprensibile volontà di aiutare i ragazzi, quelli che magari hai avuto in carico dalla prima e hai seguito per cinque anni, durante i quali li hai visti crescere, pur magari con tanti limiti, eppure svolgendo un percorso positivo. Ecco allora la tentazione di 'aiutarli', di evitare che si espongano a 'brutte figure' (meno nobile è, invece, il pensiero che, aiutando gli studenti, sei tu docente che ti eviti una brutta figura, nel caso non li abbia preparati adeguatamente...). Tuttavia questo non è il modo di aiutare i giovani a crescere responsabilmente. Tutto l’aiuto possibile fino al giorno prima, ma all’esame è bene che imparino a cavarsela da soli.